(di Luca Debenedittis) Assistendo con sgomento, ma senza particolare sorpresa, al silenzio di TUTTE le istituzioni comunali sul bagno di sangue in Palestina, i cui colori non illumineranno mai la facciata del nostro castello, mi permetto da cittadino qualsiasi di esprimere alcune considerazioni in merito. Le nuove generazioni, cresciute (non per loro colpa) in una bolla educativa e informativa che le ha tenute a digiuno su tante questioni importanti, non lo immaginano neanche ma per tutti gli anni ’70 e ’80 l’occupazione della Palestina, insieme all’apartheid in Sudafrica, erano le due questioni internazionali più sentite dal mondo politico, sindacale, associazionistico e dai movimenti studenteschi. Dare del sionista a qualcuno non poteva essere offesa peggiore e la bandiera palestinese sventolava ovunque ci fossero ingiustizie da combattere e diritti da difendere. Per un quarto di secolo, l’Italia ha svolto una fondamentale opera di mediazione e di sostegno alla causa palestinese.
Quarant’anni dopo, il Sudafrica ha sconfitto l’apartheid e Nelson Mandela da “terrorista” che era (cit. Margaret Thatcher) ne è pure diventato presidente. Sul fronte Palestina, in controtendenza, con la colonizzazione a un punto di non ritorno e la popolazione schiacciata dall’occupazione, TUTTE le istituzioni di questo Paese ormai parlano una sola lingua: quella di ISRAELE! COS’È SUCCESSO? Che fine hanno fatto 56 ANNI DI OCCUPAZIONE e di LOTTA DI LIBERAZIONE dal dibattito pubblico e politico sul conflitto israelo-palestinese?
Dove sono finiti la POLITICA, il SINDACATO, l’ASSOCIAZIONISMO? Da tre settimane tv e giornali non fanno che mostrarci i video degli attacchi di Hamas ai kibbutz, i volti delle vittime israeliane, le loro storie e i loro sogni distrutti da una follia omicida, riempendoci le orecchie di retorica moralistica con parole come “barbarie”, “sterminio”, “civili inermi”, “scudi umani”, “terroristi”, “antisemiti”, “strage senza precedenti”; che, fosse solo per decenza, dopo 76 anni di pulizia etnica della Palestina, iniziata e mai finita, e le milionate di morti delle nostre “guerre umanitarie” in Iraq, ex Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen ecc., certe espressioni faremmo bene a usarle con molta molta parsimonia.
Il tutto è raccontato di pancia, così che l’emotività domini ogni cosa e che la “vendetta” di Israele contro Gaza appaia legittima, nonostante violi ogni fondamento di diritto internazionale (come, d‘altronde, ha sempre fatto dal giorno della sua istituzione). Aggiungiamoci il continuo monito sullo “scontro di civiltà” che sarebbe in corso dall’11 settembre 2001, e l’analisi razionale e profonda degli eventi diventa pressoché impossibile.
Al resto ci pensa la semantica:
– i palestinesi cominciano / gli israeliani rispondono
– i palestinesi attaccano / gli israeliani si difendono
– i palestinesi muoiono / gli israeliani sono uccisi
– i palestinesi colpiscono indiscriminatamente / gli israeliani puntano obiettivi mirati
– i palestinesi compiono attacchi terroristici / gli israeliani effettuano operazioni militari<
– i palestinesi sono numeri / gli israeliani hanno un nome<
– i palestinesi sono o civili o Hamas / gli israeliani sono solo israeliani
– Palestina è medio oriente = arretratezza e oscurantismo / Israele è occidente = libertà e democrazia
– i palestinesi sono armati dall’Iran…malissimo! / Gli israeliani ricevono 3 miliardi di dollari/anno di armamenti dagli Stati Uniti... nessun problema
– i palestinesi hanno il dovere di … / gli israeliani hanno il diritto di ... È dai tempi della guerra fredda che sentiamo parlare di lotta tra “libertà e tirannia”, tra “bene e male”, tra “luce e tenebre”. Allora il “male assoluto” erano i sovietici e il comunismo, oggi è l’Islam con in cima Hamas. Cambia il soggetto ma non il fine: spogliare l’avversario da qualsiasi valore umano per eliminarlo senza scrupoli.
Un esempio attualissimo? L’eccidio che sta subendo PROPRIO ORA la popolazione di Gaza, verso la quale NON riusciamo a provare alcuna empatia. Mentre scrivo, le bombe israeliane hanno fatto a pezzi 8.200 persone (4.000 bambini, almeno 1.700 donne, 56 funzionari dell’ONU e 29 giornalisti) e ne hanno ferite altre 20.000. Si contano 170.000 edifici distrutti (il 40% del totale), comprese 30 moschee e una chiesa ortodossa. La popolazione sfollata è prossima al milione e mezzo. Anche dovessero salire a 100.000, 200.000 o un milione i palestinesi uccisi da Israele, quei 1.400 ammazzati da Hamas dall’altra parte peseranno comunque di più.
Eppure, al netto del coinvolgimento emotivo, cercato e alimentato intenzionalmente, se volessimo dare un senso agli eventi in corso dal 7 ottobre basterebbe distogliere gli occhi “dal dito” e alzare lo sguardo “alla luna”. Tutto parrebbe logico e chiaro. Si sta realizzando la penultima fase di un progetto coloniale vecchio di un secolo: la creazione di uno “Stato nazionale ebraico” su TUTTA la Palestina storica, dal fiume Giordano al Mediterraneo.
1) Con la Prima guerra mondiale, il movimento Sionista ottenne il sostegno dell’Inghilterra alla colonizzazione ebraica della Palestina (1917-1947).
2) Dopo la Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite gli cedettero – senza titolo – oltre metà della regione (29 novembre 1947).
3) Da quel momento e per i mesi che precedettero la dichiarazione di indipendenza di Israele (15 maggio 1948) le milizie ebraico-sioniste avviarono un’operazione di pulizia etnica della popolazione palestinese (ben documentata dallo storico israeliano Ilan Pappe), che fu una delle cause dello scoppio della Prima guerra arabo-israeliana.
4) Finita la guerra (1949), Israele si era impossessato di 3/4 della Palestina e cacciato dalle loro terre 750.000 nativi: il mondo arabo ricorderà per sempre quella tragedia col termine “Nakba” (catastrofe).
5) Con la Guerra dei Sei giorni, Israele entrò in possesso anche della Cisgiordania e di Gaza, e finì di occupare tutta la Palestina storica (1967).
TUTTAVIA – e ci avviciniamo al presente – per realizzare il sogno sionista di una nazione “esclusivamente ebraica”, bisognava sbarazzarsi delle loro popolazioni. Israele, dunque, pianificò due imponenti espulsioni di massa, una dalla Cisgiordania verso la Giordania e l’altra da Gaza verso il Sinai egiziano, ma nell’immediato NON poté attuarle poiché, a differenza del 1948, cineprese e macchine fotografiche, ormai di uso comune tra i reporter, avrebbero mostrato ogni cosa al mondo. Pertanto, in attesa che se ne creassero le circostanze, sottopose ambo le popolazioni a due regimi carcerari soggetti a legge marziale e avviò la costruzione di decine di colonie per soffocarle.
Come fare a convincere la comunità internazionale della bontà dell’operazione? Col solito metodo del “CHIAGNI & FOTTI”: a telecamere spente demolisci case, sequestri famiglie, imprigioni civili, costruisci colonie, innalzi muri, piazzi check–point, espropri terreni, distruggi raccolti, rubi l’acqua, profani i luoghi di culto, spari sui contadini, spari sui pescherecci, spari ai posti di blocco , bombardi e ammazzi, a decine, a centinaia ogni anno, indistintamente a Jenin, Nablus e Hebron, come a Jabalya, Khan Younis e Beit Hanun. Poi, quando l’insofferenza degli oppressi sfocia in ribellione omicida, accendi i riflettori, sbatti il tuo sangue sotto gli occhi di tutti e invochi il “diritto a difenderti” e a vendicarti come credi. E così, anche stavolta. I bombardamenti delle prime tre settimane hanno costretto la gente a ripararsi al sud, e quelli in corso andranno avanti finché l’intera Striscia o la gran parte di essa non sarà rasa al suolo. A quel punto, senza più una casa dove tornare, la popolazione di Gaza sconfinerà in Egitto e ridiventerà PROFUGA. Per la seconda volta in 76 anni.
L’ultimo regolamento di conti sarà con i palestinesi della Cisgiordania.
Nel mentre, continuiamo pure a parlare di MEMORIA, del bisogno di preservare la MEMORIA, dell’importanza di tramandare la MEMORIA, così che il PASSATO NON SI RIPETA MAI PIÙ. Un passato che riusciamo a immaginare in un solo modo, ma che amaramente è già tornato e ritornato tante volte senza che ce ne accorgessimo. E oggi è di nuovo PRESENTE. Che gran bel lavoro! Ma stiamocene pure in silenzio.
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