Ad ogni annuncio di blocco o trasferimento delle produzioni seguono, con i dovuti distinguo, dure dichiarazioni di rappresentanti politici e sindacali contro le multinazionali, che sempre più frequentemente sono definite ciniche speculatrici, limitandosi ad invocare l’intervento del Governo e delle parti sociali a salvaguardia e tutela dell’occupazione e dell’economia dei territori interessati. Non si allontanano da questo copione neanche le Istituzioni. Ciclicamente, all’insorgere di grandi crisi industriali e vertenze, la reazione è sempre la stessa: annunciare sistemi sanzionatori per chi delocalizza. Come più di recente si è tentato di fare col Decreto Dignità del 2018, il cui dispositivo per recuperare fondi pubblici concessi per le produzioni in Italia e poi delocalizzate si è rivelato pressoché inutile a limitare tale fenomeno, peraltro legittimo in virtù del principio della libertà di impresa sancito dalla Costituzione e dalle norme europee. Si aggiunga, poi, che le disposizioni regolanti la concessione di aiuti pubblici prevedono già clausole cosiddette di claw-back, ovvero la restituzione degli aiuti ricevuti in caso di trasferimento dell’attività finanziata in un determinato arco temporale.
La stessa logica sanzionatoria pare sia, in sostanza, quella dell’annunciato decreto Todde-Orlando per arginare il fenomeno delle delocalizzazioni e salvaguardare il perimetro occupazionale. Un intervento che, nonostante la linea indicata dal Ministro Giorgetti di applicare misure ‘compatibili con i principi fondamentali anche a livello comunitario e con l’esigenza che, comunque, il Paese ha di creare un ambiente favorevole agli investimenti esteri’, rischia di essere percepito dai grandi gruppi come un ulteriore appesantimento alla propria azione d’impresa e, quindi, generare un effetto contrario a quello previsto.
Dinanzi all’allarme per la perdita di posti di lavoro ed alla progressiva scomparsa di eccellenze produttive, assistere ad un dibattito pubblico e politico testardamente incentrato sugli effetti delle delocalizzazioni e non su un’analisi empirica delle cause reali, non è più sostenibile. Poco o nulla emerge circa la costruzione di un disegno di politica industriale di lungo periodo che, tenuto conto dei fattori che determinano la fuga delle imprese e limitano l’attrattività degli investimenti, metta in funzione azioni sistematiche, strutturali e trasversali, tali da colmare definitivamente il gap con altri Paesi europei. Né il dibattito pubblico spinge perché si affronti la questione in questa direzione.
Non sono certo le sanzioni a frenare le delocalizzazioni, occorre che una volta per tutte si affrontino e si individuino in maniera sistematica e con fare scientifico le ragioni che spingono le multinazionali a non produrre nel nostro Paese. E sembra assurdo doverlo ribadire, poiché i fattori in base ai quali le multinazionali e le aziende italiane – determinate per loro natura a perseguire i propri interessi ed obiettivi – operano le loro scelte localizzative sono ben noti. La verità è che le imprese delocalizzano perché l’Italia è un posto dove sviluppare il proprio business è sempre più difficile. Purtroppo, emerge, contrariamente all’immaginario collettivo, che il costo del lavoro è solo uno di quei fattori, invero neanche il più importante. Lo stesso dicasi per i livelli di tassazione. Vi sono Paesi europei con un uguale o più alta imposizione fiscale che non registrano un’emorragia al pari di quella italiana. A determinare lo svantaggio competitivo del nostro Paese pesano molto di più fattori quali il carico normativo e burocratico, l’eccessivo se non irragionevole spacchettamento delle competenze della Pubblica Amministrazione, un quadro legislativo incerto con un frequente disallineamento tra disposizioni nazionali, regionali e locali, una giustizia civile lenta e l’incertezza del diritto, tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione tra i più lunghi d’Europa, un tasso di corruzione e criminalità ancora alto, costi energetici elevati e tempistiche epiche per il rilascio di autorizzazioni ambientali.
Questo è un elenco incompleto, ma inesorabile, di inefficienze e colli di bottiglia percepiti da multinazionali e imprese come i principali fattori di deterrenza ad entrare, o permanere, nel nostro Paese. Un groviglio di incognite ed incertezze che spesso annullano i fattori di attrattività ed eccellenza distintivi dell’Italia, quali know how e qualità delle risorse umane, patrimonio artistico ed ambientale, infrastrutture e logistica (con qualche distinzione locale). Dobbiamo evitare che la discussione sulle delocalizzazioni e la salvaguardia dell’occupazione si riduca banalmente ad additare le scelte di business dei grandi gruppi e a premere per sistemi sanzionatori che, alla fine, potrebbero rivelarsi un boomerang. Auspichiamo, piuttosto, un’accelerazione delle riforme previste dal PNRR su alcuni di questi aspetti (giustizia e burocrazia in primis) affinché si innesti una road map industriale di ampio respiro, che disegni logica, strumenti ed effetti degli interventi strutturali necessari ad invertire la rotta. Un impegno ineludibile perché si colmi finalmente la distanza che separa l’assetto politico, economico e amministrativo dell’Italia da una cultura imprenditoriale globalizzata, che richiede efficienza, dinamismo, competenza e visione.
Giuseppe Di Taranto, Professore di Storia economica Luiss e Angelo Guarini, Direttore Confindustria Br (nella foto)
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