(da il 7Magazine del direttore Gianmarco Di Napoli)
Esattamente trent’anni fa incontrammo per la prima volta l’allora commissario capo Gerardo Acquaviva, foggiano di Ascoli Satriano, appena nominato dirigente del commissariato di polizia di Mesagne che lui stesso era chiamato di fatto a istituire. In questi giorni, il trentennale della nascita di quel presidio dello Stato che rappresentò l’elemento decisivo nella lotta alla Sacra corona unita è stato celebrato a Mesagne con l’arrivo tra gli altri del capo della Polizia, Lamberto Giannini. E’ stata l’occasione per incontrare di nuovo Acquaviva, andato in pensione da alcune settimane dopo aver guidato le questure di Sondrio e Pavia, proprio all’ingresso di quel Commissariato.
Davanti a questa palazzina il tempo sembra si sia fermato, è tutto quasi identico a trent’anni fa. Ci sono solo quelle insegne in più con la scritta Polizia. In compenso è cambiata la città: Mesagne non è più un luogo di mafia, non è più l’emblema della Sacra corona unita. E tutto è iniziato proprio da qui, dal giorno in cui avete aperto per la prima volta quel cancello.
“L’insegna non è un accessorio. Ricordo che quando arrivai qui fu una delle prime cose che cercai di ottenere, quando ancora mancava tutto. Volevo che ce ne dessero una retroilluminata con la scritta “Polizia”, in modo che anche di sera si potesse percepire bene la nostra presenza, che passasse l’idea che qualcosa stava cambiando profondamente”.
Lei e il commissariato in pratica siete “nati” insieme.
“Con lo stesso decreto, nel febbraio 1992, il ministro dell’Interno istituiva un Commissariato distaccato di pubblica sicurezza a Mesagne e venivo nominato “dirigente dell’istituendo commissariato di polizia”. All’epoca ero dirigente dell’Ufficio scorte di Milano e avevo chiesto un avvicinamento alla Puglia. Quando mi proposero Mesagne non
sapevo neanche dove si trovasse: sulla cartina vidi che era a 270 chilometri da casa mia. Mi dissero che erano stati interpellati altri colleghi e che nessuno ci voleva andare. Non capivo perché: mi aprì gli occhi un collega anziano,
mi disse: “Ma guarda che stai andando dove sta la Sacra Corona”. E io gli chiesi: e cos’è una chiesa? Non ne avevo mai sentito parlare”.
Quale fu il suo primo impatto? “Quando arrivai a Brindisi mi diedero un alloggio all’interno della caserma Carafa che era
la sede della Polizia stradale. Ci abitava Michele Emiliano con la famiglia, ricordo che gli stava per nascere un figlio. Faceva il magistrato ed era già sotto scorta perché minacciato dalla criminalità organizzata. E ci abitava un altro collega, il commissario Salvatore De Paolis. Siamo stati insieme una settimana tutti e tre. Andai più volte dal questore dell’epoca,
che era salernitano, e gli chiedevo di continuo: “Scusate, sono stato nominato dirigente del commissariato di Mesagne, me lo fate almeno vedere? Poi capii perché non mi portavano: non c’era nulla, non esisteva un commissariato. Era stato preso in affitto un piccolo condominio destinato a civili abitazioni davanti alla stazione ferroviaria. Lo andai a visitare, chiesi al questore: ci mettiamo un’insegna? E quello mi rispose scherzando, ma non troppo: “Un’insegna? Una lapide ci dobbiamo mettere”.
Poi verso la metà di marzo finalmente la nascita del Commissariato fu annunciata, ma non ci fu alcuna inaugurazione. O meglio il battesimo arrivò, ma dalla parte sbagliata. “Mi assegnarono tre agenti che arrivavano da Roma, freschi di nomina, giovani, ma con tanta voglia di lavorare. Ma non avevamo un’auto e non esisteva una centrale operativa. Chiesi alla questura che mi dessero almeno una radio portatile per tenerci in contatto e una macchina. Ci diedero una Panda senza insegne della polizia e una radiolina. Qualche giorno dopo arrivò un tir da Roma: il camionista suonò al campanello e scaricò nel cortile del commissariato alcuni mobili. Stava andando via, lo rincorsi, mi disse che aveva l’ordine di scaricare e lasciare lì. Il giorno successivo stava per piovere, avevo paura che i mobili si inzuppassero. Con i ragazzi decidemmo di portarli dentro, salirli al piano superiore dove erano gli uffici. E ci mettemmo a montarli con cacciaviti e martelli. Mettemmo insieme il mio ufficio e gli alloggi collettivi. Venni a sapere che a Matera dovevano dismettere la centrale operativa con un tavolo a mezzaluna. Prendemmo un camioncino e andammo a caricarci tutto. Ci montammo pure la sala operativa. Nel frattempo il ministero ci aveva inviato alcuni ispettori molto in gamba, trasferendoli dal commissariato del porto di Brindisi”.
E ci fu il battesimo con l’omicidio. “Quel pomeriggio stavamo mangiando pollo negli uffici. Alla radio sentimmo dalla squadra mobile che erano stati segnalati colpi d’arma da fuoco nelle campagne alla periferia di Mesagne. Andammo sul posto: avevano sparato cinque colpi di pistola a un vigilante, poi con uno stoppino e la benzina avevano dato fuoco
a lui e alla sua auto. Penso che fosse ancora vivo quando lo avevano bruciato”.
Fu un modo per capire subito in che posto l’avevano spedita. “Totalmente diverso da dove arrivavo. Parlando in giro con la gente ci rendemmo conto che Mesagne era una città in preda al terrore. Se suonavi il clacson a qualcuno che si fermava con l’auto in mezzo alla strada rischiavi di essere picchiato. Era il periodo delle estorsioni, delle bombe. I commercianti pagavano tutti il pizzo, qui come a Latiano e San Vito dei Normanni che erano gli altri due comuni affidati al nostro commissariato”.
La frangia malavitosa si mostrava in giro o lavorava sotto traccia? “Si vedevano eccome. Il loro regno era tra Porta Grande e Porta Piccola, c’erano zone in cui nessuno voleva entrare. Avevamo la netta percezione di una città dominata e che la presenza dello Stato non venisse presa in considerazione. Facevamo perquisizioni a casa di persone che erano veramente povere, dove a volte per riscaldarsi davano fuoco ai comodini di legno. I bambini ci chiedevano perché ve la prendete con noi che siamo famiglie oneste, vendiamo solo sigarette? Mesagne era una città chiusa, in cui la politica e le energie positive avevano difficoltà a sprigionarsi”.
Però quasi subito cominciaste ad avere risultati concreti. “Fu fondamentale all’inizio la collaborazione con le altre forze dell’ordine: per avere un quadro preciso facemmo affidamento su chi aveva la memoria storica del posto. I carabinieri
della locale stazione, i vigili urbani e qualche personaggio “borderline” del territorio che cominciò a parlare. A settembre di quell’anno riuscimmo a compiere la prima operazione importante: otto fermi con l’accusa di associazione mafiosa, convalidati poi da Emiliano. Quando portammo via gli arrestati mi ricordo i vecchietti che al passaggio delle volanti si toglievano il cappello. In molti dicevano: staranno dentro solo una settimana e poi escono. E invece restarono in carcere e furono condannati a pene pesantissime. Quello fu il primo segnale”.
Che impatto ebbe quel primo blitz sulla città? “Fu una boccata d’ossigeno per tutti. La gente comprese che quel commissariato non era più un condominio e questo diede maggior vigore e consapevolezza dei nostri mezzi anche a noi
stessi che diventavamo sempre più forza catalizzatrice di altre energie dello Stato, come la squadra mobile, i carabinieri. Sulla scia di quell’operazione ci sentivamo ancora più determinati: non avevamo orari di lavoro, era come se fossimo pervasi da una forza liberatrice. Percepivamo l’importanza di questa azione. Io stesso mi consideravo un’unità aggiunta ai miei uomini: non restavo in ufficio, uscivo con loro in pattuglia”.
Parallelamente iniziarono ad avvertirsi le prime crepe nell’organizzazione criminale. “A dispetto degli scettici, iniziammo noi a dettare legge. Cominciarono a esserci i primi collaboratori di giustizia che svelarono meccanismi ancora oscuri, e noi iniziammo ad aggredire i patrimoni dei boss, togliendolo loro man mano e definitivamente la disponibilità economica, che era il loro vero potere. Con la divisione anticrimine della questura sequestrammo tra i primi i beni alla famiglia Rogoli”.
Si percepiva anche all’esterno questo momento di rinascita? “Iniziò un nuovo corso politico, fu importantissimo il ruolo del sindaco dell’epoca Cosimo Faggiano, uno che guardava già avanti. I condizionamenti mafiosi sino ad allora si riverberavano sulla cultura: c’era una sorta di paralisi provocata dalla paura e una volta ripresa la fiducia e liberate quelle energie, è ritornata anche la politica e con essa ha ripreso a muoversi la società civile. Ecco noi, e poi i colleghi che hanno proseguito ottimamente quel lavoro, abbiamo creato le condizioni affinché politica, società civile e imprenditori riprendessero il controllo della vita della città”.
Per il suo contributo è stato insignito della cittadinanza onoraria del Comune di Mesagne. “Per me quella cittadinanza onoraria è stata la forma più elevata di retribuzione. Ha consolidato un legame già fortissimo con la città che non si è mai interrotto negli anni successivi. E venire qui a Mesagne oggi con mia moglie è stato davvero come ritornare a casa. Per altro mia figlia nata proprio qui”.
Conosceva già anche l’attuale sindaco, Toni Matarrelli. “Sì, devo dire che ho un ricordo speciale che mi fa sorridere. All’epoca io avevo 33 anni e Toni era uno studente del Liceo Scientifico. Era già un leader, lo notavo in tutte le manife
stazioni di protesta dei ragazzi perché il “Muscogiuri”, che lui frequentava, si trovava proprio alle spalle del commissariato. E una volta, durante una di queste manifestazioni in cui lui guidava la protesta, avendolo individuato come il “capo” che poteva avere presa sugli altri, gli dissi, anche un po’ preoccupato per lui: “Non fare cose di cui potresti pentire, stai calmo, non fare la testa calda”. Fu quasi un gesto paternalistico. Si vedeva già che aveva il carisma del leader, ma non potevo
certo prevedere che avrebbe avuto poi una carriera politica così brillante, diventando anche il sindaco della città. Ora, ritrovandoci trent’anni dopo, in una città in cui tutto è cambiato, penso che anche quell’incontro e quello scambio di parole non furono casuali”.