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Simone Papadia si racconta: “E’ una malattia di cui non bisogna vergognarsi”

Incontrammo Simone Papadia (nella foto), mesagnese di 26 anni, una sera al Palatorrino di Roma dove era impegnato in una partita con la nazionale italiana di calcio a 5 “Crazy for football” (Matti per il calcio) contro il Senegal. Lo intervistammo prima di scendere in campo assieme al suo allenatore (a sinistra nella foto). “La pratica sportiva – ci disse in quella occasione – è fondamentale per il recupero di ragazzi con problemi di salute mentale”. Simone, che dopo un lungo e difficile periodo è riuscito ad uscire dal tunnel ed ha trovato la giusta strada per il suo reinserimento sociale, ci ha contattati per chiederci di lanciare un messaggio ai tanti, purtroppo sempre più numerosi, suoi coetanei che vivono gli stessi suoi problemi, per incitarli a superare ogni difficoltà.

Questo il suo messaggio.

“La mia infanzia è stata normale fino ai 18 anni quando ho deciso di lasciare il mio paese per andare a vivere a Milano. Per circa 2 anni non ho avuto grossi problemi, lavoravo normalmente e vivevo in una casa con dei coinquilini che studiavano. Fui preso in un negozio di giocattoli per bambini (tipo Toys center) dove conobbi una ragazza di cui mi innamorai perdutamente. E da lì iniziò il declino per me.
Lei mi rifiutava ed io non accettavo questo rifiuto; non riuscivo a capacitarmi del fatto che non era ricambiato questo amore. Iniziai ad avere una forte paura di perdere tutto quello che mi ero costruito negli anni a Milano. E questa paura divenne realtà quando persi il lavoro. A quel punto decisi di tornare a casa mia a Mesagne.
Ma la mia testa mi diceva che dovevo scappare a Milano, senza più dare notizie di me alla mia famiglia, perché avevo paura che potessero intralciare il mio cammino. Presi un volo e tornai a Milano dove iniziai a girare per gli ostelli della città,  cambiandone uno a sera, così che non mi potesse rintracciare nessuno. Mi cancellai dai social, spensi il cellulare, lo butto via. Finiti i risparmi cominciai a dormire per strada, chiudendomi in un mutismo; non parlavo con nessuno, chiunque si avvicinasse a me non aveva nessuna risposta qualsiasi cosa mi chiedessero.
Mangiavo alla Caritas e mi vestivo con quanto trovavo in giro; alla Caritas davano degli indumenti una volta alla settimana. Mi lavo alle fontane pubbliche e vivevo completamente la vita di strada senza un tetto; non avevo un posto dove dormire,  un posto dove andare. Vagabondavo per Milano tutto il giorno. La mia vita era lo stare in strada.
Poi i miei genitori scoprirono dove stavo e vennero a trovarmi. Ma neanche con loro parlavo. Dopo un anno di vita in strada i miei genitori, grazie all’aiuto dei volontari di Milano, riuscirono a farmi un TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e fui costretto ad andare in ospedale, nel reparto psichiatrico dove ebbi contatto, per la prima volta, con la mia malattia di cui io stesso non sapevo di essere succube.
Le prime medicine e i primi contatti con altri pazienti furono devastanti per me convinto di stare bene. Da lì mi portarono al Perrino di Brindisi e mi trovarono un posto in comunità nel barese dove scoprii che la mia malattia andava curata con dei farmaci e con l’aiuto di persone come la psicologa e gli assistenti sociali.
Iniziai a parlare di nuovo, e a fidarmi delle persone a me vocine. Dopo 2 anni di comunità tornai di nuovo libero. Arrivò l’opportunità di giocare nella nazionale “Crazy for football”, la nazionale italiana di persone con disturbo mentale e ricominciai a vivere la mia vita normalmente, convivendo con la mia patologia e avendo sempre dei punti di riferimento come la psicologa e psichiatri che mi seguono quotidianamente.
Voglio che si sappia questa mia odissea perché i ragazzi come me non si abbattano mai per queste problematiche ma continuino a combattere e farsi aiutare. E’ una malattia di cui non bisogna vergognarsi. Anzi ci rende consapevoli di dove possiamo arrivare. 
Questo è il racconto, in breve, della mia storia”.

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